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mercoledì 18 novembre 2015

Lavorare per lavorare, il destino crudele dello "stagista"



Perlopiù non sono proprio pagati affatto. Dragano uffici, studi professionali, corridoi di enti pubblici e privati, magazzini e atelier, fornendo cibo quotidiano alle fotocopiatrici e realizzando le ricerche sul web o le consegne snobbate dai dipendenti. Eseguono le disposizioni dei titolari nei compiti più umili e più ripetitivi. Cercano di apprendere conoscenze e tecniche utili per il futuro e sperano di firmare prima o poi uno straccio di contratto. 

In realtà si sentono e sono spremuti da un mercato del lavoro che li attira con false promesse, li lusinga con inutili encomi e, a conti fatti, li lascia a mani vuote. Grazie, tanti auguri e sotto a chi tocca. Tutti noi ci siamo abituati a incrociare stagisti nei luoghi e nei momenti più disparati. Forse non reputiamo il loro sfruttamento, usiamola questa parola dal sapore antico, nemmeno il più grave in un orizzonte economico a tinte cupe. Eppure l’uso e l’abuso del tirocinio a costo zero è un fenomeno che attraversa le latitudini, accomuna i Paesi malgrado la diversità di leggi e regolamenti.

Per la prima volta, il 10 novembre 2015, un filo ha unito le delusioni, le proteste e le speranze di un esercito di giovani (e presunti tali per condizione di precarietà prolungata) nelle simboliche manifestazioni svolte in sette città di quattro continenti: da Parigi a Melbourne, da New York a Ginevra, da Bruxelles a Chennai (già Madras), a Trento, dove un flash mob ha dato idealmente voce alle speciali condizioni degli stagisti italiani.

I dati dicono che non ci neghiamo record negativi: i nostri sono tra i più anziani e i più consci di fornire testa e manodopera gratuita senza ricevere una vera occasione formativa. La maggior parte deve rassegnarsi per anni a passare da uno stage all’altro rimandando sempre la fatidica firma di un contratto, di qualsiasi specie e durata.

Sono soli, gli stagisti, nonostante qui e là strutture sindacali denuncino, aggreghino, provino a tutelare. Il ricatto sottinteso, spesso la truffa camuffata di stage senza compenso e senza prospettive, è un potere troppo impalpabile per essere aggredito. Sono soli, gli stagisti, davanti alla paura di non farcela, di non poter mettere in mostra il proprio talento. Sarà un caso ma la forma scelta per evocare l’invisibilità di questa categoria di lavoratori è lasciare un paio di scarpe dove operano: davanti al frigo, a un centralino, al box accoglienza di una fiera. L’idea l’ha avuta l’albanese Teuta Turani, diplomata a Ca’ Foscari, poi tirocinante all’Onu. A titolo gratuito, ovviamente.

di Marco Sappino


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