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giovedì 29 giugno 2017

LA REGOLA DELLO SPECCHIO (e dello smembramento del sé)


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Per chi avesse visto “L’uomo della Mancha” film vecchiotto (1972) con un Peter O’ Toole all’apice della forma, forse si ricorderà l’insolito finale, che è anche il momento clou della storia. L’anziano Don Chisciotte, una sorta di nobile decaduto, si imbarca in imprese ritenute” folli”(celebre su tutte la lotta con i mulini a vento, divenuta paradigmatica di un certo modo di battersi contro difficoltà inesistenti) , che nel suo immaginario visionario medioevale sono in realtà il dovere di un cavaliere (ma in realtà siamo ben oltre la fine dell’epoca cavalleresca: la vicenda è ambientata fra il il XVI e il XVII secolo). Ai suoi aristocratici parenti tutto ciò non garba, un po’ per il discredito sul casato, e molto per il timore di perdere quei pochi averi ancora rimasti. Così escogitano un trucco in cui lui possa cascare facilmente: assoldano alcuni uomini, che a cavallo e travestiti con armature da soldati medioevali, lo raggiungono e lo circondano, mostrandosi ostili: lui crede siano cavalieri nemici e si prepara a combattere. Ma essi non fanno che puntargli contro i loro scintillanti scudi metallici, estremamente levigati e lucidissimi, che facendo da specchio gli rimandano la sua immagine di vecchio debole e sconfitto. Quella è la fine delle sue imprese. “Rientrato in sè” (poi vedremo quanto sia mistificante questa espressione) Don Chisciotte torna a casa e praticamente si lascia morire.

C’è un mondo, o meglio un universo, in quello specchiarsi e riconoscere tutti i propri limiti, tutta l’enorme inadeguatezza umana; quello che succede in realtà è una sorta di cessione o scambio di identità: egli stava vivendo una dimensione permeata da quello che negli antichi culti misterici greci veniva definito enthousiasmos, letteralmente “ essere in dio” cioè in altre parole, “essere posseduti dal dio” e quindi “diventare dio”; si trattava di uno stato in cui nei riti iniziatici dell’antichità si veniva condotti al punto in cui si superava la propria natura semplicemente umana per entrare pienamente in contatto con la propria natura divina e ci si rendeva conto di appartenere realmente ad un altro piano di realtà, o meglio che una parte dell’uomo è già in quella dimensione, e l’acquisizione della consapevolezza, con la susseguente espansione della coscienza, ve lo può proiettare completamente, qualora il processo sia totale. Si tratta in sostanza dell’immortalità di cui parlano gli insegnamenti dell’antica sapienza universale, uno stato che cessa di essere corporeo, la “spiritualizzazione del corpo” o trasmutazione di cui parla l’alchimia, eventualità ben illustrata nel film “Lucy” e anche in parte da “Limitless” (che significa appunto “senza limiti”).

Per tornare a Don Chisciotte, quella che per l’uomo ordinario era follia per lui era la sua realtà divina che si era impossessata di lui e che egli viveva con qualche limitazione mentale ma nondimeno veicolando pienamente lo spirito che l’animava, come dimostrato dal cambiamento avvenuto in colei che lui chiamava Dulcinea (Sofia Loren nel film) una povera sguattera zotica e ordinaria la quale, trasfigurata dall’amore e dalla visione che ha di lei Don Chisciotte – che la tratta come una grande dama - riconosce la propria nobiltà di spirito ed inizia a vivere in maniera consona alla sua “nuova” identità, quella profonda armonia interiore che trasforma la misera argilla in un capolavoro cosmico quando si riconosce ciò che si è veramente: lei ri-conosce la vera se stessa, cioè la sua natura divina, e da allora in poi la sua vita non sarà mai più la stessa; ma tutto ciò avviene grazie al “pazzo” Don Chisciotte, che le trasmette la sua visione “magica”, il suo vedere oltre le apparenze per cogliere l’essenza, la realtà dietro la parvenza. Il fatto è che Don Chisciotte la “vedeva” nelle sue vesti regali dello spirito, come allo stesso modo vedeva la realtà ordinaria attraverso altri occhi – gli occhi di un dio costretto a misurarsi con la cosiddetta “normalità” cogliendone però l’inespressa e sottesa essenza.

Ma torniamo allo specchio: che succede in quel drammatico momento in cui egli non vede più il Sè, il cavaliere eroico, il dio, ma solo un uomo ordinario con tutti i suoi limiti e un’identità da pazzo fallito? L’identificazione con l’ego, l’io anagrafico, impedisce il contatto con il Sè, e l’anagrafico travolge e cancella il divino, trascinando le vibrazioni vitali in basso, in un vortice di pochezza esistenziale. Lo specchio è qualcosa di vagamente misterioso, presente nelle fiabe e molto usato nella magia, come anche collocato nella tradizione popolare (in alcuni luoghi è d’uso coprire gli specchi con un drappo nero quando in casa muore qualcuno) proprio per la sua capacità di riflettere –forse- anche quello che non c’è (su questo piano) o meglio che non si vede e non sembra esserci ma c’è eccome, evocando presenze parallele. Può agire evidentemente anche al contrario, come nella vicenda di Don Chisciotte: e cioè attuare un distacco netto fra il Sé eroico del cavaliere e la sua banale dimensione egoica che affiora implacabile: imprime forza alla personalità, all’io, vampirizzando il Sé. Noi vediamo specchiata la nostra pochezza individuale, e non l’indole fiammeggiante che ci appartiene veramente. Oppure, ed ecco girate le carte in tavola ma il trucco è sempre l’immagine riflessa, ecco un Narciso che viene talmente sedotto dal proprio volto specchiato nell’acqua, che , lungi dall’esserne sconvolto se ne innamora, e perdendosi nella contemplazione idolatra dell’io si immedesima talmente con la sua immagine (oggi si dice: “è tutta questione di “immagine”!) da smarrirsi in essa, perdendo così non solo il Sé ma anche l’ego, poiché annega nel laghetto in cui si è specchiato cercando di abbracciare la sua stessa immagine: mito estremamente sintomatico della mentalità di oggi in cui vanno in voga i palestrati tutto muscolo e le veline tutta coscia –ma cervello poco. Ma nel caso di Don Chisciotte – come vedremo anche di Dioniso - naturalmente lo specchio è solo simbolico della concezione che si ha di se stessi, tutte le idee limitanti e castranti che ci siamo fatti (o che ci hanno comunicato altri) di noi stessi: sei un fallito, un inetto, o comunque sei solo un corpo, un pezzo di carne e niente più: che ti aspetti? Mentre per Narciso è l’illusione di senso contrario ma altrettanto deleteria, il miraggio dell’apoteosi dell’io ben al di là dei suoi contorni reali.

Ritroviamo lo stesso meccanismo che fa leva sul vecchio aristocratico spagnolo (e forse Cervantes da lì ha preso spunto) in un mito greco molto antico, quello dell’infanzia di Dioniso, considerato uno degli dèi ma in realtà solo parzialmente lo è, in quanto figlio di Zeus, il re dell’Olimpo e di una donna mortale, Semele. Dioniso era odiato dai Titani, una classe di divinità tradizionalmente avverse agli dèi olimpici con cui nella mitologia greca combatterono una grande guerra, la Titanomachia. Rappresentano perciò, simbolicamente, le forze della disgregazione, le energie disordinate e destabilizzanti del caos, in contrapposizione all’ordine cosmico instaurato dagli dèi olimpici.

Insomma, in qualche modo i Titani riescono a mettere, fra i giocattoli di Dioniso bambino in sua assenza, uno specchio, che egli poi prende per rimirarsi: questo è il momento clou della vicenda, perché in tal modo viene meno il potere protettivo che evidentemente aleggiava sul bambino e che non permetteva alle forze del caos di toccarlo, di penetrare nel suo mondo rispondente all’ordine cosmico: Dioniso vede riflessa la sua natura umana scissa da quella divina, e crolla così , come per Don Chisciotte, quella barriera che si ergeva fra il Sé reale e l’ego illusorio, fra l’essenza vera e la sostanza illusoria, cancellando la prima e lasciando il bambino in balia dell’identificazione con un ego debole, mortale, transeunte e fondamentalmente illusorio, non più “guidato” dall’ordine interiore, dal suo inserimento nel progetto che va ben al di là della sua individualità; non più “tenuto insieme” perciò dall’unità del flusso universale di cui fa parte. Viene meno la consapevolezza di Sé e di tutto ciò che comporta e prende il sopravvento la coscienza egoica (con la conseguente disunità), e così egli viene letteralmente dilaniato dai Titani, che poi mettono a cuocere i pezzi e se li divorano. Ma in qualche modo tralasciano il cuore (organo sempre simbolico del centro della persona, della sua unità interiore trascendente) che viene recuperato da Atena (la dea della saggezza) la quale lo porta a Zeus che ricompone, partendo da lì, il fanciullo: è ovviamente, un nuovo Dioniso, che tuttavia reca con sé il segno indelebile dell’opera traumatica delle forze caotiche, e diverrà il dio dell’ebbrezza, dell’intossicazione psichica che però può essere anche possessione divina: una visione oltre gli angusti limiti umani e schemi sociali che fanno di Dioniso il dio della libertà ma anche del pericolo dell’andare oltre i limiti senza avere ben chiaro dove si va, insomma una bipolarità, un’ essenziale ambivalenza, una situazione borderline.

Dunque qui abbiamo uno smembramento che ritroviamo nel mito di Osiride, che viene poi a sua volta miracolosamente “ricomposto” per giusto il tempo di concepire il figlio, Horus, il quale sconfiggerà le forze del caos (e rappresentate simbolicamente da Seth, il fratello cospiratore a cui si deve lo smembramento di Osiride); ma lo vediamo con ancor più precisione nel rituale iniziatico sciamanico, in cui gli “spiriti” fanno a pezzi il candidato al ruolo di sciamano, e spesso li cuociono in un calderone come i Titani hanno fatto con Dioniso. Finito il processo di disgregazione totale, di annullamento, l’individuo viene ricomposto con pezzi nuovi, finché alla fine è una “nuova creatura” e degno del ruolo di sciamano-guida della sua comunità. Ovviamente tutto ciò avviene in uno stato alterato di coscienza, ma nondimeno come esperienza molto reale sul piano psichico (come del resto le abductions, i cosiddetti rapimenti UFO), ma è sintomatico, insieme alle storie mitiche già raccontate, di un principio fondamentale: che nel nostro stato ordinario, per il ”gioco” ingannevole dello specchio, noi, crescendo e uscendo dai dorati cancelli dell’infanzia veniamo “smembrati”, nel senso che non possediamo un’unità interiore vera e propria, e per via delle forze dissolutrici del caos che vengono a predominare in noi non abbiamo un ordine interiore, la nostra personalità diventa disomogenea e perciò non guidata dallo spirito che è Unità assoluta.

E allora che fare? Occorre rimettere insieme i pezzi (quelli veri, rigenerati), ossia ri-membrarci, attuare cioè il ricordo di Sé, l’anamnesis pitagorica: riacquisire, come Dulcinea, il ricordo di chi siamo veramente. Nella mente del cosmo.


Simon Smeraldo

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